La storia che ora ascolterete s’intitola Pesci
rossi e pescicani, è un mio racconto
autobiografico che ho scritto quando collaboravo con l’Agenzia giornalistica
Hpress, ed è uno dei primi racconti che feci leggere a Pinketts e ad Andrea
Carlo Cappi, il mio futuro mentore. Un mio racconto dallo stile tipicamente
pinkettsiano, che scrissi ancora prima di conoscere lo stesso Pinketts, e che
ora voglio riproporre per rendergli un ulteriore omaggio.
Ora posso
dirlo! Ieri, domenica 7 febbraio 1999, la morte mi ha sfiorato, e me ne sono
accorto soltanto oggi!
Io
generalmente sono contrario alla pesca, soprattutto alla pesca sportiva; anche
perché non riesco proprio ad immaginarmi una pesca in tuta da ginnastica mentre
fa footing. L’unica pesca che pratico è quella di beneficenza, dove migliaia di
bigliettini, tutti accatastati in una boccia di vetro sprovvista d’acqua,
attendono pazientemente che qualcuno li sottragga da quella casta ammucchiata.
Una volta, partecipando ad una pesca di beneficenza, vinsi un pesciolino rosso
in un sacchetto pieno d’acqua; ma queste, si sa!, sono le straordinarie
coincidenze della vita.
Esattamente
come quelle coincidenze che fanno evitare la lenza ad un pesce, per farla
abboccare ad un altro.
Ero andato al
Casinò De La Valle
di Saint-Vincent con l’intenzione di giocare alla roulette (rigorosamente
francese, non russa!), sperando ardentemente che, pescando i numeri giusti,
potessi fare un po’ di beneficenza a me stesso.
Percorsi
con i miei compagni del Servizio Tempo Libero dell’A.I.A.S. Milano il lungo
corridoio verde (il colore della speranza), cercando di captare tutte le
sensazioni di quell’irreale silenzio.
Arrivammo
in fondo, ai due ascensori. Non eravamo soli: con noi c’erano altre dieci
persone, tutte in trepida attesa.
L’ascensore
di sinistra arrivò. Lucia, una volontaria, salì con un ragazzo in carrozzina,
e, considerata la capienza di 8 persone - come dichiarava il grande cartello
posto sopra l’ascensore -, invitò a gran voce altre persone ad entrarvi.
Dopo
qualche secondo arrivò quello di destra: quattro persone vi si catapultarono
dentro, e, nonostante la loro magrezza, decisero di essere abbastanza obese per
non aspettare alcun altro.
Giunto al
piano superiore, la mia mente di autore di thriller cominciò a funzionare
alacremente: sapevo che in quell’ambiente sfarzoso, in quell’acquario, tutto era
finto, e che l’eleganza dei pescatori serviva soltanto a nascondere le
dilanianti ferite inferte dai pescicani.
Mi
guardai intorno: decine di persone, serissime, che non erano più in grado di
vedere la morte in faccia perché era già penetrata nei loro occhi.
Voltando
lo sguardo a destra e a sinistra, il mio inconscio decise di premiarmi
guidandomi verso l’angelica visione di due hostess, due deliziose biondine in
tailleur rosso, due bei pesciolini rossi a guardia di una finta slot-machine
che permetteva di vincere, gratuitamente, il portachiavi-ricordo del casinò.
Proseguii,
e mi accomodai al tavolo della roulette.
Decisi
di pescare non con una canna ma con una rete, puntando su intere serie di
numeri. Giocavo con estrema caparbietà; tanto, la Fortuna va a Fortuna, è
inutile cercarla altrove. Qualcuno, mi pare Edith, disse che ero il Paul Newman
della situazione; in realtà, io mi sentivo come James Bond nel primo (e
tragicissimo!) romanzo di Ian Fleming, Casinò
Royal.
Imbroccai
qualche numero giusto, ma evidentemente pescai anche dei piraňa, che mi
divorarono voracemente le maglie della rete. Nella mezz’ora che avevo a mia
disposizione persi 60.000 lire. La volta, nonché l’anno, precedente ne avevo
perse 100. Quindi, praticamente, questa volta era come se ne avessi guadagnate
40… anche se il mio portafogli si ostinava a darmi torto.
Uscendo dal
casinò giocai alla finta slot-machine, concentrandomi più sui due pesciolini
rossi che sulla macchina in sé.
Vinsi,
e il pesciolino alla mia sinistra mi diede il portachiavi, elargendomi uno
splendido sorriso.
Salii in
ascensore con Mariangela, la mia deliziosa assistente di quella giornata.
Entrarono un presunto padre con un altrettanto presunto figlio.
Il
padre - alto, capelli tagliati molto corti, baffi castani, e camicia a mezze
maniche tra il rosa e l’arancione - ci salutò cordialmente; il figlio, no. Il
figlio, un maggiorenne (visto l’ambiente) con la faccia da adolescente, laccato
e vestito di tutto punto in un rigoroso abito nero, fissava, serissimo e
impassibile, l’aria davanti a sé: nei suoi occhi, sagome di pescicani
continuavano a vagare avanti e indietro senza sosta.
La
mia perversa mente di autore di thriller stava galoppando, facendomi immaginare
padre e figlio sconfitti e debitori di una cospicua somma di denaro che
dovevano racimolare (e restituire!) al più presto.
La cronaca di
oggi, lunedì 8 febbraio 1999,
ha preceduto qualsiasi mia fantasia: ieri sera, poche
ore dopo la nostra partenza, il Casinò De La Valle di Saint-Vincent è stato teatro di un altro
tipo di pesca. Una pesca brutta, cattiva, violenta.
Una
pesca di pescicani.
Una
pesca di strozzini.
Una
pesca marcia.
Una
pesca andata a buon fine, compiuta non con una rete ma con una canna. Una canna
calibro 9.
©Sergio Rilletti, lunedì 11 marzo 2019, ore 17.15, Radio SkyLab, per "PAROLA DI SCRITTORE - CINQUE MINUTI CON SERGIO RILLETTI" - Letto da Stefano Pastorino
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