Questo
racconto è dedicato a due giovani
e
alle loro splendide anime.
Lei
si chiama Lisa, lui mi pare Mauro o Maurizio.
Li
incontrai, un giorno, in mezzo al Parco di Monza.
E spero, un giorno, di poterli
incontrare di nuovo!
E' questa dedica la motivazione principale per cui ho scritto
questo racconto: per ringraziare quei due splendidi giovani che, quella
fatidica Domenica 9 Aprile 2006,
mi soccorsero al Parco di Monza; nella speranza che,
attraverso il passaparola, le mie parole giungano anche a loro.
Oggi, a 5 anni esatti da quella drammatica esperienza - e
dopo aver scritto molti articoli e interventi al riguardo, anche su ciò che
avvenne dopo quella vicenda -, ho deciso di sospendere, per il momento,
gli approfondimenti e di ritornare all'inizio, riproponendo Solo! in una
versione nuova, aggiungendo dei particolari inediti, ma tutti reali, che avevo
tralasciato, e comprendendo il restyling di alcuni termini. Particolari
e termini che offrono una visione ancora più nitida e veritiera della vicenda,
facendola fondere meglio a tutto quello che è già stato scritto al riguardo,
sia da me sia da altri, e a quello che scriverò.
Una scelta che, ai miei nuovi lettori, dà l'opportunità di
conoscere una storia che non avrei mai voluto scrivere ma che mi sta portando
ancora molta fortuna, e, ai miei lettori più affezionati, offre nuovi
particolari d'una vicenda che, con mio sommo piacere, li ha coinvolti in
profondità!
Una brutta vicenda di cui, potete contarci, sentirete
parlare ancora molto a lungo!
(Sergio Rilletti, sabato 9 aprile 2011)
(Sergio Rilletti, sabato 9 aprile 2011)
Quest’anno ho scoperto che
il Destino è un mio grandissimo fan; un fan un po’ apprensivo, a dir la verità,
che, ingiustamente preoccupato che rimanga senza ispirazioni per i miei
thriller, me ne fa capitare di tutti i colori. La storia che state per leggere
è assolutamente vera. Dopo una lunga e attenta meditazione ho deciso di
scriverla “in soggettiva”, telecamera immaginaria alla mano, per portarvi con
me, a bordo della mia carrozzina elettrica, e farvi vivere quello che ho
vissuto io, esattamente come l’ho vissuto io: pensieri compresi. La data e i
luoghi sono veri, i nomi dei personaggi sono ovviamente modificati per
salvaguardare la loro privacy. Solo i nomi di Lisa e, mi pare, Maurizio (ho una
certa idiosincrasia con i nomi maschili) sono veri; e ho voluto mantenerli tali
in modo che loro si possano riconoscere e io possa ringraziarli. Ma ora basta
con le chiacchiere, e seguitemi nei folti meandri del Parco di Monza e della
mia mente. (Sergio Rilletti, settembre 2006)
Domenica 9 aprile 2006, Ore 13.10 circa, Parco
di Monza
Vanno. Loro vanno. E io,
rimango sempre più indietro.
Certo che seguire due risciò con una
carrozzina elettrica di modeste dimensioni e di scarsa potenza come la mia, non
mi sembra un’idea proprio geniale, anche perché il terreno qui è sconnesso. Ma
come potevo impedire agli altri di andarci? Ora dovrò fare la passeggiata
da solo, e accontentarmi dei momenti di contatto che avrò quando si fermeranno
ad aspettarmi. Accontentarmi e gustarmeli. Fino in fondo.
Già, accontentarmi. Loro davanti, tutti
assieme, che si divertono; e io qui dietro, da solo, che arranco. D’altronde,
non potevo certo oppormi, non potevo impedire agli altri di fare questa
bell’esperienza.
Ma come ha potuto Carletto fare una proposta
del genere?
Speriamo almeno che si fermino. Qui il
terreno è accidentato, e la carrozzina traballa.
Sì, sì; sicuramente si fermeranno. Carletto è
un professionista: sa quello che fa. Sì, ecco, si fermano. Bravo, Carletto:
sapevo di poter contare su di te! Ora vi raggiungo. Ancora qualche metro su
questo terreno sconnesso, e sono da voi. Una buca, due buche, una pozzanghera
di fango, un dosso di terra battuta, e ancora una buca. La carrozzina traballa
per tutto il tempo, ma alla fine vi raggiungo. Sorrido. Anche Carletto sorride,
e poi mi fa: “Senti… Possiamo andare avanti?”.
A me si raggela il sangue e non dico nulla,
paralizzato, sbalordito; ma Carletto non si accorge di niente e prosegue: “Ti
fai una bella passeggiata da solo nel parco fino alla cascina. Tanto la strada
è facile: vai avanti fino all’autodromo e poi giri a sinistra, costeggiandolo.”
Sconcertato, rispondo di sì. Io non sopporto
l’idea di rimanere da solo in un luogo pubblico, soprattutto in un parco; un
parco non mi dà alcun senso di sicurezza: si può incontrare chiunque, in un
parco, assolutamente chiunque. Ma che diritto ho io di limitare agli altri
questa bell’esperienza? Domando di nuovo la strada, con espressione
estremamente titubante, per far capire che non sono affatto sicuro. Carletto me
la ripete, e io, sempre titubante, li saluto. Tanto, penso, si
gireranno. Non mi perderanno certo di vista!
Vanno. Loro vanno. Senza voltarsi.
E mi distanziano sempre più.
Io arranco con la mia piccola carrozzina
elettrica. Qui il terreno è asfaltato, procedo abbastanza bene. Li vedo
allontanarsi. Già, si allontanano. E non si voltano.
Cazzo, ma voltatevi!
Niente. Non si voltano.
Vedo, lontano, una curva; una curva che
devono intraprendere. Sarei tentato di tagliare per il prato, per avere almeno
una piccola possibilità di raggiungerli, ma se mi ribalto che faccio? Il
terreno erboso è il più insidioso di tutti, perché l’erba copre, e,
sotto l’apparenza di un terreno verde e pianeggiante, si cela sempre un terreno
accidentato, pieno di dune, pendenze, e avallamenti. E le possibilità di
ribaltarsi sarebbero infinitamente superiori! Non mi fido, e decido di
proseguire per la strada principale; anche se sono consapevole che non li
raggiungerò mai.
Continuo, senza perderli di vista.
Finché posso.
Poi salgono su una montagnetta; su, su, fino
in cima.
Li guardo, per vedere se si girano. Si
gireranno sicuramente per salutarmi. Si girano? No, se ne vanno:
proseguono. Lasciandomi definitivamente solo.
Oh, cazzo! Speriamo in bene!
Avanti fino all’autodromo e poi giri a sinistra, mi hanno detto. Devo
costeggiare l’autodromo. Ma dov’è l’autodromo? Speriamo almeno che la batteria
della carrozzina duri fino alla cascina, che non si scarichi prima. Proseguo, tesissimo.
Maledico il momento in cui ho accettato. Maledetta generosità! Ora loro
(Carletto, i due volontari dell’Organizzazione, e i tre miei compagni) sono
tutti insieme a divertirsi, mentre io sono qui a girare da solo come un pirla! Mi
impongo di calmarmi, ci riesco; tanto ormai è inutile: sono da solo! Quindi, ho
due alternative: o continuare a recriminare o godermi il panorama. Opto per la
seconda.
Intanto proseguo sempre dritto, per un bel
po’. Dritto, e poi all’autodromo a sinistra, costeggiandolo, mi ripeto.
Meno male almeno che il tempo è bello. Pensa un po’ se minacciasse di piovere…
Continuo la mia marcia forzata ostentando un
interesse particolare per tutto il verde che mi circonda. Laggiù, lontano, vedo
anche le montagne innevate. Non che mi interessi in modo particolare un panorama
che, andando a questa velocità, cambia poco; ma almeno mi aiuta a distrarmi e a
non pensare che sono solo… e che devo trovare la strada per tornare alla
cascina. A proposito: dove cazzo è l’autodromo? Ormai è da un po’ che sto
camminando. Possibile che sia così avanti? Possibile che siano andati così
avanti? Mi fermo, scruto l’orizzonte, ma dell’autodromo non si vede neanche
l’ombra. Eppure non è piccolino. È un autodromo, voglio dire: se ci fosse,
lo vedrei! Anche lontano, magari, ma lo vedrei!
Rischio di farmi prendere dal panico; invece
no, non devo!
Aziono la cloche della mia carrozzina, e
procedo. Se ti hanno detto vai avanti fino all’autodromo, e non vedi ancora
l’autodromo, vuol dire che non sei ancora arrivato. Semplice, no?
Semplice un corno! Se sei in un posto
sconosciuto, hai solo una vaga idea di dove dover andare (sperando, tra
l’altro, di aver capito bene), non vedi mai arrivare questo cazzo di punto di
riferimento (peraltro neanche tanto piccolo), ti guardi intorno e ti sembra
tutto uguale, e non puoi neanche chiedere una conferma a qualcuno perché le tue
difficoltà motorie ti creano qualche problemino nel farlo, allora no, non è
affatto semplice essere sicuri di non aver sbagliato strada. Ma proprio neanche
un po’. E comunque non ti preoccupare, mi dico. Appena non ti
vedranno arrivare, ti verranno sicuramente a cercare! Ora non devi fare altro
che andare avanti fino…
Mi blocco.
Mi raggelo.
Ma no… non è possibile!
E mo’, dove vado?
MA DOVE CAZZO E’
L’AUTODROMO?!
Sono arrivato a un incrocio a T. Davanti a me
la strada è sbarrata da un paio di panettoni. O meglio: non è che sia proprio sbarrata,
ma comunque il passaggio non è abbastanza largo per un risciò. E poi, al di là
dei panettoni, il terreno sembra sabbioso. Evidentemente è qui che devo girare
a sinistra. Sì, ma… Dove è l’autodromo?
Vado. Ma le cose non stanno andando come
previsto. E questo non mi piace neanche un po’. Sto abbandonando il viale
principale. Non è prudente, lo so, ma per un po’ rimarrò comunque ben visibile:
se ripassassero, mi vedrebbero sicuramente! E poi, loro mi aspettano in
cascina. L’appuntamento è là!
Arrivo a un altro incrocio. Ora ho tre
possibilità: o attraversare la strada e proseguire diritto (però quella mi
sembra una zona un po’ troppo boscosa, e rischio di fare la fine di Cappuccetto
Rosso), o immettermi in questa strada dove scorrazzano le auto (e non ci penso
proprio!), oppure seguire questo controviale pedonale che costeggia la
carreggiata delle auto. Sì, questa terza soluzione mi sembra la migliore: la seguo.
Anche perché, in effetti, quelle auto devono pur fermarsi da qualche parte. Non
è detto, ma magari vanno proprio all’autodromo.
Procedo lungo il controviale, mentre le auto
continuano a sfrecciare alla mia sinistra.
Ecco. Ora ho completamente abbandonato il
viale principale, non lo vedo più; e per ogni metro che faccio su questa
strada, la tensione aumenta. Speriamo in bene, speriamo di aver fatto la scelta
giusta!
No!…
Rallento.
No!…
Rallento.
No!…
Mi fermo.
Di nuovo. Per forza.
Nooo!… Ma porcaputtana! Ma
non è possibile!… E che è?!
La strada è sbarrata, di nuovo. E questa
volta non si tratta di semplici panettoni, tra cui, magari, potrei passare; no,
è proprio sbarrata, chiusa!
Ansimo. Sento un brivido corrermi lungo la
schiena: parte dalla cervicale e si snoda in tutto il corpo. Dondolo la testa
da una parte e dall’altra, per sgranchire i muscoli del collo e scaricare la
tensione. Scoppio in una risata isterica, giro la carrozzina, e mi affretto a
tornare indietro. Ecco, ora sono proprio nei guai. Ma proprio Guai Guai
Guai! Non vedo l’ora di tornare sul viale principale. Cazzo, adesso come
faccio? Magari mi si scarica pure la batteria della carrozzina!… Ma che
coglioni!
Sono tornato sul viale principale,
finalmente. Giro fiducioso la testa a destra e a sinistra, ma di Carletto &
Co. neanche l’ombra.
Ma che coglioni!
Vado a destra e poi torno indietro,
mantenendo una posizione ben centrale. Vedo scorrazzare molti risciò, ma
nessuno con tre persone a bordo. Finalmente ne vedo uno con tre passeggeri. Mi
sento sollevato. Alzo la mano sinistra e preparo un bel sorriso, pronto a fare
un allegro cazziatone; ma quando il risciò si avvicina… devo ritirare tutto:
mano e sorriso. Non sono loro!
Ma che cosa aspettano a
venirmi a cercare? Non si sono accorti che non ci sono? Qui devo razionalizzare
i movimenti, non posso continuare così! Se mi si scarica la carrozzina, sono
guai! E sì
che Carletto è un professionista: dovrebbe ben sapere che potrebbe scaricarsi
la batteria. Ma che coglione! Torno indietro, fino alla mappa del parco
che avevo notato, e guardo dov’è la cascina. È un po’ lontana, ma decido di
riprovarci.
Parto. Comincio a ripercorrere la stessa
strada di prima, ma la tensione e la rabbia hanno raggiunto livelli ormai
incontrollabili. Ma guarda un po’ cosa mi doveva capitare: l'educatore
coglione! Ma quando arrivo a casa, Chiara e Gelsomino mi sentono! Che poi
loro, i responsabili dell'Organizzazione, in effetti non hanno colpa: Carletto
ha un curriculum favoloso, è normale che scegliessero lui! Chi poteva
immaginare che, uno con un curriculum favoloso come il suo, potesse combinare
una stronzata del genere?
E ora, che faccio? Sto percorrendo di nuovo
questa strada, e loro non ci sono ancora! Non posso continuare a girare così a
caso: la carrozzina rischia di scaricarsi!
Devo chiedere aiuto. Ma a chi? Anche
ammesso di riuscire a parlare in modo abbastanza chiaro da farmi comprendere, a
chi chiedo informazioni? Qui è pieno di gente, è vero, ma sono comunque
tutti dei passanti: non è detto che sappiano dove è la cascina.
Mentre cerco invano la figura di Carletto
& Co., uno spiraglio si apre. Uno spiraglio di speranza. A forma di
entrata. A circa venti metri da me, sulla destra, c’è una deviazione che porta
a due colonne che delimitano l’entrata di un rione. Mentre mi avvicino guardo
meglio: sembra un quartiere agricolo, e ci sono delle case. Sono un po’ in
dubbio se entrare o no: si tratta comunque di abbandonare di nuovo il viale
principale; consumerei batteria, il terreno lì è molto sconnesso, e il risultato
è incerto. Ma comunque, se voglio chiedere aiuto, è lì che devo andare.
Varco l’entrata, e mi sembra di ritrovarmi in
aperta campagna. Vado avanti per il sentiero sterrato stando ben attento a dove
metto le ruote, per non ribaltarmi. Alla mia sinistra vedo un vecchio contadino
raccogliere legna, qualche metro dietro a lui c’è un bel fuoco, e, un po’ più
lontano, quasi di fronte a me, leggermente alla mia destra, una donna bruna
sbuca dal cortile del rione, camminando a passo spedito. Sarà per l’aspetto giovane
ed eretto, sarà perché, per esperienza, so che le donne sono spesso più sveglie
di noi uomini, sarà per la mia naturale propensione verso il sesso femminile,
ma opto per lei. Già. Io opto per lei ma lei non opta per me, e devia verso un
altro sentiero.
Rimango stupito: pensavo che la mia fosse
l’unica strada per entrare e uscire da quel rione; e invece, a quanto pare, no.
Capisco subito che non la raggiungerò più e
mi dirigo verso l’agglomerato di case, disposte a ferro di cavallo.
Entro nel cortile, e mi colloco nel centro.
Lo spettacolo è deprimente e angosciante; mi sembra di essere capitato in una
città fantasma. Case bianche e fatiscenti, con persiane verdi e porte marroni.
Forse, una volta, erano belle, ma ormai i muri sono sporchi e scrostati, logorati
dal tempo, e le porte, anche se chiuse a chiave, non danno certo l’idea di
sicurezza e protezione.
Comincio a gridare (“Aiuto! Aiuto! Aiuto!”),
ma la parola Aiuto ha una combinazione di lettere davvero ostica per me,
quindi riesco a pronunciare solo la
A , mentre tutte le altre lettere mi muoiono in gola.
Nessuno si affaccia. È inutile rimanere
oltre.
Decido di tentare con il contadino. Torno
indietro, ma… No! Dov’è?… Dov’è finito il contadino? Mi dirigo
nell’esatto punto dove l’avevo visto prima; mi guardo intorno: il fuoco c’è
ancora… ma il contadino no. No, non è possibile! Ho perso l’unico contatto
che avevo!
Calma, calma. Sta’ calmo e
ragiona. Se ha preso della legna e al fuoco non c’è, vuol dire che l’ha portata
da qualche altra parte. Ma dove?… A casa, certo: è andato a casa!
Torno nel cortile, e scruto tutte le porte
delle case. Laggiù, in fondo, ce n’è una aperta. Il contadino dev’essere là!
Mi avvicino. Il contadino esce, mi guarda incuriosito, e mi viene incontro.
“Hai bisogno di aiuto?“ mi chiede.
La sua voce fessa non promette nulla di
buono, ma io faccio cenno di sì.
“Ti sei perso?”
La risposta esatta sarebbe “No, mi hanno
perso”, ma, per semplificare, taglio corto e rispondo di sì.
Eh-eh! E mo’ viene il bello! In casi come questo, quando
devi spiegare una tua impellente necessità ad un estraneo, devi proprio
dimenticarti qualsiasi forma di preambolo, di sintassi, e di educazione, che
impegnerebbero l’attenzione e il tempo dell’altro inutilmente, e concentrarti
solo sull’informazione primaria in sé. Sono un po’ incerto sull’informazione da
chiedere. Indicargli la borsa, per fargli prendere la mia agenda e telefonare a
qualcuno, mi sembra troppo complicato; quindi, mi rimangono due possibilità:
Cascina o Autodromo? ‘Fanculo l’autodromo!, mi rispondo. Lo guardo fisso
negli occhi, e, scadendo bene le parole, dico semplicemente: “Cascina Costa
Alta”.
“Cascina Costa Alta?!" mi ripete lui.
Come, mi ha capito? Sono sinceramente stupito:
non mi aspettavo che ci saremmo capiti così, al primo colpo; mi affretto a dire
di sì. Lui mi guarda un po’ perplesso. “Sei un po’ lontano: la cascina che dici
tu è a due chilometri da qui.”
Io lo guardo sbigottito. Rimango senza
parole, anche nella mente.
“Guarda: Tu, uscito da qui, vai a sinistra;
poi, a un certo punto, vedrai un cartello con l’indicazione Bocciodromo."
Il contadino mi spiega tutta la strada; sembra facile, ma poi conclude:
"Comunque, secondo me, non ce la fai ad arrivare, perché alla fine c’è una
salita così. Hai capito?”
Dentro rabbrividisco, ma comunque non posso
chiedergli di più: rispondo di sì, lo ringrazio, e, anche se insicuro, vado.
Incontro di nuovo la donna bruna; sarei tentato di chiederle aiuto, ma ho paura
che il contadino, vedendomi, possa rimaner male. Proseguo senza dir niente.
Esco dal rione e comincio a cercare
febbrilmente l’indicazione per il bocciodromo, sperando sempre che la
carrozzina non si scarichi.
Finalmente la trovo, esulto, e la seguo. Ma
anche quella strada risulta essere interrotta.
Ora sono completamente isolato, non c'è
nessuno, neanche un volto sconosciuto a cui chiedere aiuto, e non mi piace
neanche un po'. Se mi capita qualcosa qui, sono veramente nei guai.
Mi affretto a tornare indietro sul viale
principale, e mi guardo intorno. Ci sono? No, macché! Ma che gruppo
di coglioni!… Ma che branco di handicappati!
Decido di andare ancora alla mappa, per
chiedere aiuto da lì. Ma che imbecilli!
La mappa, oltre alla cartina del parco,
mostra, in basso, sei cerchi con i luoghi più importanti del parco. Io mi
posiziono il più vicino possibile, in modo da poter indicare con facilità
Cascina Costa Alta. Comincio a gridare agitando le braccia, per attirare
l’attenzione; le persone, però, non mi degnano neppure e tirano dritto.
Dopo un po’ vedo arrivare una famigliola -
papà, mamma, e bambino -, e io, avendo una fiducia smodata nelle famiglie,
gesticolo ancora di più. L’uomo mi vede sbracciarmi e gesticolare, mi guarda,
e, con lo sguardo assente come il suo cervello, mi risponde: “Ciao!”.
“Eh, Buonanotte!” lo saluto
platealmente io.
Finalmente arriva un giovane pattinatore,
castano e riccioluto; arriva sparato sui rollerblade, e, dopo qualche giravolta
di rallentamento, si ferma proprio accanto a me. Io gli indico la cascina, e
lui mi indica la strada; si assicura che abbia capito, e poi se ne va, sparato
com’era arrivato.
Vado, ricordandomi che a un certo punto devo
girare a sinistra. Io vado, ma qui è tutto uguale. Dov’è che devo girare? Sono
depresso, angosciato, non ce la faccio più. Il mio sguardo vaga alla ricerca di
Carletto & Co., oppure, in alternativa, di qualche vigile o poliziotto a
cavallo (so che esistono!). Avrei voluto evitarlo, ma dopotutto… Cazzi
loro: a mali estremi, estremi rimedi!
Non vedo nessuno.
C’è un viale a sinistra: lo prendo; ma mi
sembra dannatamente uguale a quello che mi aveva portato alla strada
carreggiata e al controviale pedonale senza uscita, e mi faccio prendere dal
panico. Sono sull’orlo d’una crisi di nervi. Incrocio un uomo; vorrei
chiedergli aiuto, ma è troppo impegnato col suo cellulare. Proseguo.
Pochi metri davanti a me compaiono due
ragazzi: lei è una deliziosa biondina, con i capelli lunghi e il viso rotondo,
pieno di nei ma “pulito”; lui è bruno, capelli corti, viso tendente al rotondo
ma con lineamenti più marcati. Mi vengono incontro. Io devo avere
un’espressione abbastanza spaventata, perché lei mi chiede subito se mi serve
aiuto, senza bisogno che io dica A: io mi affretto ad annuire.
“Ma è da solo?” si chiede lei con stupore e
voce carezzevole, guardandosi intorno. E poi, rivolgendosi a me: “Ma eri con
qualcuno?”.
“Con un gruppo.”
“Vedi, era con un gruppo!” esclama, rivolta
al ragazzo.
“Ma io non vedo nessuno”, risponde lui,
scrutando l’orizzonte.
“Neanch’io” ribadisce lei.
Io scoppio in una piccola risatina isterica. Eh!
Non ditelo a me!
“Guarda nella sua borsa, magari ha un numero
da chiamare” dice lei.
Io sto per assentire, ma lui, con un tono
dolce e imbarazzato, dice: “No… Non me la sento di mettergli le mani in borsa”.
“Vabbe’… Andiamo in là, vedrai che li
troviamo!” dice la ragazza, rivolgendosi a me. Io non sono proprio così
ottimista, ma capisco che non mi abbandoneranno, e mi sento al sicuro. Li
identifico subito come due angeli custodi mandati da Dio, e lo ringrazio. Sul
serio! Io non sono particolarmente avvezzo a questo tipo di pensieri, non mi
capita molto spesso di ringraziare Dio, e quasi mai lo faccio tempestivamente;
ma, questa volta, sì.
C’incamminiamo, e io mi mantengo qualche
metro davanti a loro; abbastanza vicino perché capiscano che sono sempre con
loro, ma abbastanza lontano perché possano continuare a godersi un po’ di
intimità. Li sento ridere e scambiarsi paroline affettuose. È un piacere
sentirli: mi fanno andare indietro nel tempo; agli amori giovanili dei miei
primi amici. Sì, è proprio un piacere sentirli. Parlano tra loro, ma so che
sono con me. Sì, loro sono con me, e sento lei dire: “Ma l’hanno lasciato solo?
Ma che gente è?… Ma come si fa a lasciarlo solo?”.
Sogghigno, con soddisfazione e sollievo. La
tipa è sveglia, ha colto proprio nel segno: non pensa che mi sono perso,
pensa che mi hanno perso!
Arriviamo al viale principale, ci guardiamo
intorno, ma… Toh, che strano. Non c’è nessuno.
“Io non vedo nessun gruppo. Se ci fosse un
gruppo, lo vedremmo”, dice lei con aria smarrita e stupefatta.
“Che facciamo, chiamiamo i vigili?” propone
lui.
“No, aspetta. Magari in borsa ha un numero da
chiamare!”
“Ma a me non va di mettere le mani nella sua
borsa” ribadisce lui, timido e imbarazzato al tempo stesso. Mi fa proprio una
bella impressione: il rispetto, quasi reverenziale, che ha per me e per la mia
privacy mi colpisce e mi commuove. Ma questo non è il momento della
riservatezza, e faccio chiaramente capire che non deve farsi problemi e di
guardare pure nella mia borsa.
“Ecco, vedi, vuole che guardiamo nella sua
borsa; giusto?”
Annuisco con veemenza. “Ho una agenda” dico,
scandendo bene le parole.
“Hai un’agenda?” ripete lei. Poi, vedendo la
mia espressione meravigliata, mi fa: “Sei stupito perché ho capito? Ma io sono
abituata con i bambini, faccio la maestra. Eh sì: la maestra Lisa capisce
sempre tutto!”.
Maestra? Ma come maestra? Io
pensavo che andasse ancora a scuola…ma mica come maestra!
Chiedendomi ancora una volta il permesso, il
ragazzo comincia a frugare nella mia borsa, maneggiando ogni cosa come fosse
una reliquia antica di immensa fragilità, finché trova la mia agenda.
“Chi dobbiamo chiamare?” mi chiede Lisa.
La cosa più facile sarebbe far aprire
l’agenda alla prima pagina, dove ho i numeri dei miei familiari e parenti, e
far chiamare i miei genitori. Ma loro sono andati a fare una gita fuori Milano,
e, se li chiamo, mia madre si terrorizza. So di non avere il numero di
quell’imbecille di Carletto, ma so di avere quello di Filomena, una volontaria
che era rimasta in cascina con altri miei compagni. So di avere il suo numero
di casa; spero di avere anche quello di cellulare.
Dico di aprire l’agenda alla lettera F,
indico il nome di Filomena, ma… Ho soltanto il suo numero di casa! Il
cuore mi sale in gola, ma non dico niente. Lisa prende il mio cellulare, lo
accende, ma si accorge che dovrebbe mettere il pin
per attivarlo; e, anziché chiedermi il codice, mi rimette via il telefono,
chiedendo al ragazzo di usare il suo. Io lo lascio tentare. C’è ancora una
piccola possibilità, una fievole speranza: Asdrubale, avvocato e neo-ex
fidanzato di Filomena, in quel momento potrebbe essere proprio lì, a
raccogliere le sue cose.
Asdrubale risponde. Il ragazzo gli parla, e
deve ripetergli due volte che mi hanno trovato a girare da solo in mezzo al
Parco di Monza, e che sono molto agitato; gli dà il suo numero di cellulare, di
cui, purtroppo, memorizzo solo le prime tre cifre
("Tre, Nove, Zero!"),
e gli dice di richiamarlo per fargli sapere dove dobbiamo trovarci. Riattacca, e ci riferisce che Asdrubale si è incazzato e ha detto frasi del tipo: “Ma come da solo?… Ma sono impazziti?”.
("Tre, Nove, Zero!"),
e gli dice di richiamarlo per fargli sapere dove dobbiamo trovarci. Riattacca, e ci riferisce che Asdrubale si è incazzato e ha detto frasi del tipo: “Ma come da solo?… Ma sono impazziti?”.
Nella mia mente si forma, fugace, l'immagine
di mia madre che telefona ad Asdrubale per assumerlo come avvocato per
querelare Carletto per abbandono e danni morali.
Il cellulare suona: è Carletto. Il ragazzo
gli spiega dove siamo, ma poi si interrompe, perplesso. "Ah! Non hai
capito!" conclude. E allora gli dice che li aspetteremo all’incrocio dove
c’è la mappa.
Ci avviamo. Io vorrei chiedere al ragazzo il
suo numero di cellulare, per poterli richiamare, ringraziare bene, e magari,
perché no, rivederli con un po’ più di tranquillità per chiacchierare un po’;
vorrei proprio farlo, ma, invece, mi blocco: mi stanno aiutando, stiamo
procedendo verso un obiettivo ben preciso, non voglio distogliere la loro attenzione
per magari agitarli o imbarazzarli. Tanto, penso, Carletto e
Asdrubale ce l’hanno. Sicuramente me lo daranno. Do la precedenza a una
parola, una soltanto, che devo per forza dire ora, se no poi, nella confusione,
magari non riesco più a pronunciare: “Grazie!”.
“Di niente, figurati!” risponde prontamente
lei.
Chiedo a lui come si chiama.
“Maurizio” dice sorridendo.
Lei si affretta a ridirmi che si chiama Lisa,
ma in realtà il suo nome l’ho già memorizzato da prima. “E tu?” fa lei, con
voce gioiosa.
“Sergio.”
“Ah, Sergio!”
Arriviamo all’incrocio, e ci mettiamo proprio
accanto alla mappa; così, giusto per essere sicuri che ci vedano.
Lisa e Maurizio sono di fronte a me, e,
mentre stiamo aspettando che arrivino, inaspettatamente, veloce come un lampo,
tra loro schiocca e sboccia un bacio. È un bacio-lampo, reciproco e simultaneo,
un bacio giocoso, uno di quelli che solo due fidanzatini possono scambiarsi. Un
bacio fresco, giovane, primaverile, che si fonde perfettamente con i colori di
questa bella giornata. Non posso trattenere un moto di contentezza. Loro se ne
accorgono e scoppiano a ridere, creando tra noi un legame magico e
indissolubile.
Arriva Carletto, incredibile ma vero!, con il
pulmino dell’Organizzazione. Scende e, anziché dire frasi del tipo Come
stai?… Scusami. Ma che pirla sono stato! oppure Grazie, ragazzi!
Davvero, grazie mille!, comincia a sfottermi dicendo che non ho il senso
dell’orientamento; e quando Lisa gli dice “Guarda che era molto spaventato!“
lui rincara la dose, facendo i versi che di solito si riservano ai bebè, e
sostenendo che mi stavano cercando dappertutto e che, comunque, era tutto sotto
controllo.
Minchia! Lo mando subito, e più
volte, a 'fanculo. Non gli dico dove deve mettersi il pulmino solo perché sul
pulmino devo salirci anch’io.
Mentre uno degli volontari, senza proferir
parola, mi carica di gran carriera, ho solo il tempo di un ultimo fugace
sorriso con i due ragazzi.
Lisa e Maurizio sono lì; probabilmente si
aspettano che Carletto dica loro qualcosa. Io lo guardo con due occhi grandi
così. Adesso li ringrazierà, sì. Arriverà a capire che deve ringraziarli! No,
macché! Carletto non arriva a capire neanche questo! Sale sul pulmino, e parte.
Mi guardo intorno, e mi accorgo che la
compagnia è cambiata. A parte Carletto e il volontario che mi aveva caricato
sul pulmino, non sono quelli che erano partiti con me dalla cascina; sono
quelli che erano rimasti dentro. E ci sono pure dei miei compagni in
carrozzina! Sono scioccato. Ma come? Venite a cercare me, e, anziché organizzare
un gruppo di soli volontari in modo da poter essere più liberi nei movimenti,
vi portate dietro le carrozzine? No, non è possibile! Non è proprio possibile!
Filomena, seduta accanto a me, è al telefono
con Asdrubale. Mi dice che Asdrubale poi mi darà il numero di cellulare del
ragazzo, e io, contento, lo ringrazio. Filomena comincia a farmi domande a
raffica, come se potessi spiegare in cinque minuti cosa mi era accaduto, e,
alla fine, bella bella esclama: “Sai, Sergio, di questa storia potresti scrivere
un racconto!”.
“Sì, sì… Contaci!”
Cascina Costa Alta, Ore
15.30
Mi trovo qui, nel salone.
Sono tornato da poco, e ora sto mangiando. Mi sento ancora un po’ scosso per
quello che mi è accaduto. Tutti mi hanno accolto con un grande applauso, è
vero, ma nessuno mi chiede niente. Perché? Neanche Guido e Viola, i due
volontari con cui ho più confidenza, mi chiedono niente; neanche come sto. Perché?
Il cellulare di Carletto suona: è mia madre.
Carletto le dice “che ho fatto una cosa…!”, facendole supporre che si tratti di
una bricconata.
La saluto, dicendole solo che ora sto bene. Tanto,
penso, ho tutto il tempo per far rabbrividire familiari, parenti, e un
nugolo di amici!…
Quando ho iniziato a
scrivere questo racconto, non immaginavo che venisse così lungo. Il fatto è che
nelle mie molteplici narrazioni orali, per quanto fossero dettagliate, ho
sempre tagliato i particolari dei miei pensieri, delle mie sensazioni, e degli
imprevisti che incontravo, parti fondamentali della vicenda, per non affaticare
troppo l’ascoltatore; quindi, quella che mi ricordavo all’inizio, al momento
della premessa, era solo la versione “orale”, non quella “integrale”. Poi,
scrivendo, mi è riaffiorato in mente tutto. E solo così, solo mettendo tutto
quello che avevo visto e provato e pensato, espressioni da educanda infuriata
comprese, potevo trasmettere esattamente quello che avevo vissuto, scandendo
l’evoluzione della mia paura “momento per momento”, che comunque ho sempre
dominato. Ma se la paura non ha mai governato la mia mente, ha però dominato
quella dei volontari, che, accomunati da un malsano concetto di unione di
gruppo, si sono fatti fagocitare tutti dal terrore. E questa vicenda,
purtroppo, ha un epilogo delirante.
Io, pochi giorni dopo i
fatti qui narrati, in cuor mio so già che non querelerò mai Carletto , anche se
potrei diventare ricco e famoso con estrema facilità. E non lo querelerò
unicamente per due motivi: un po’ perché appartengo comunque ad una famiglia di
santi - dediti a perdonare sempre tutti, anche chi si meriterebbe una punizione
esemplare, da insegnamento a chiunque -, e un po’ per non creare problemi
all’Organizzazione, che, in fondo, non ha colpa.
Però non mi va di dirlo
subito, e lo tengo per me.
Filomena mi scrive un’e-mail
dove mi dice che mi ha visto un po’ agitato e di confidarmi pure con lei, se
voglio. Io mi fido, le scrivo in due righe quello che penso di Carletto, e lei
non mi dice più nulla, né per e-mail né a voce.
Gli altri volontari, anche
quelli che credevo affezionati, non mi dicono più nulla al riguardo; e quando
mi vedono, fanno finta che sia successo niente.
Non solo. Ma non riesco
neppure a ottenere il numero di cellulare di Maurizio: né Carletto né
Asdrubale, che oltretutto me l’aveva promesso, l’hanno tenuto, compiendo così
un atto gravissimo, deplorevole e senza senso (senza senso in tutti i sensi!),
degno di un racconto non giallo, ma noir.
E pensare che io li volevo
solo ringraziare, quei due ragazzi. E l’ho più volte specificato a Carletto, ad
Asdrubale, e a Chiara e Gelsomino - i due educatori responsabili
dell’Organizzazione -, che volevo solo ringraziarli!…
L’unica vera soddisfazione
in questa vicenda è essere riuscito a cavarmela in una situazione difficile e
imprevedibile, e di aver scoperto di possedere, forse, più capacità di quelle
che sospettavo.
Quest’anno il Destino si è
dimostrato un mio grandissimo fan, procurandomi parecchi colpi di scena… tra
cui l’incontro con Lisa e "Maurizio" (sperando, ovviamente, che lui si chiami proprio
così). Spero proprio che un giorno, magari con la "complicità" di
qualcuno, possa procurarmi un altro colpo di scena e farmeli incontrare di
nuovo!...
©Sergio Rilletti, 2006-2011
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